1008.
[…] La ronda attorno ai magazzini era adatta a sprofondarmi oziosamente nelle mie meditazioni. Di giorno poi, la favolosa flora estiva attirava in modo particolare la mia attenzione sui colori e di notte e prima del sorgere del sole si stendeva sopra di me un firmamento, che attraeva il mio spirito nei grandi spazi. […]
Io cerco soltanto presso Dio un posto per me, e se sono vicino a Dio non voglio presumere che anche i miei confratelli non debbano essere vicini a me. Ma questo dipende da loro. […]
Il mio ardore rassomiglia più a quello dei morti o dei non nati. […]
L’arte è una creazione, il suo valore rimane immutato. Alla mia arte manca forse un appassionato senso di umanità. Io non amo con terrena cordialità né gli animali né alcun altro essere inferiore. Non mi chino sino a loro, né li elevo a me. Mi dissolvo piuttosto prima nel tutto e mi metto poi su un livello di parità col prossimo, con tutto quanto mi circonda di terreno. Possiedo. In me l’idea del terreno cede di fronte all’idea dell’universale. Il mio amore è distaccato e religioso. Il senso faustiano della vita mi è estraneo. Contemplo il creato da un punto di vista remoto, primigenio, secondo formule preconcette, che abbracciano a un tempo l’uomo, l’animale, la pianta, il minerale, gli elementi, tutte le forze operanti nell’essere. Mille problemi ammutoliscono, come se fossero già risolti. Non c’è per me né verità né errore. Troppe sono le possibilità, soltanto la fede vive in me, creando. Emana calore da me? Freddezza? Al di là dell’incandescenza non se ne può far questione. E poiché non sono molti quelli che vi giungono, pochi sono coloro che ne sono tocchi.
Non c’è sentimento, per quanto nobile, che mi accomuni ai più. L’uomo della mia opera non è specie, ma punto cosmico. Il mio occhio terreno vede troppo lontano e in tal modo le cose più belle gli sfuggono. Spesso si dice di me: «Egli non avverte le cose più belle».
Arte è sinonimo di creazione.
Neanche Dio si è occupato dell’attualità contingente.